25-26-27 FEBBRAIO 2024
Siamo in quattro divisi in due gruppi, i viaggi da fare sono Irpinia – Berlino Est e Bologna – Berlino Est. Noi che siamo a Bologna sembreremmo avvantaggiati ma dobbiamo prendere l’aereo a Venezia, loro a Napoli.
Già all’aeroporto di Venezia iniziamo a riconoscerci, facce da CCCP, facce stravolte, facce entusiaste, facce nostalgiche e confuse. Qualcuno legge “Nessuna voce dentro” di Zamboni davanti al Gate. Io inizio a sorseggiare birra di mattina in un bar nelle vicinanze. E’ una domenica qualunque, il 25 febbraio 2024, ma stiamo rompendo la monotonia dei viaggi di lavoro o turistici: mentre una folla di tedeschi si riversa a Venezia, noi andiamo alla volta di Berlino, in direzione esattamente contraria.
Ci mancavo da 11 anni. L’ultima volta ero rimasto a terra semisvenuto davanti a un chioschetto di currywurst, senza soldi, senza amici, senza donne, senza speranza. Lì mi venne l’idea di scrivere il mio primo romanzo “Allegri che tra poco si muore”.
Dunque il 25 febbraio 2024 arriviamo a Berlino alle 5 del pomeriggio, ancor prima di andare all’hotel per sistemare le valigie, ci fermiamo in una birreria dove beviamo un paio di Spaten Hell medie ciascuno. Siamo al tavolo in quattro: io, Gianluigi, Emanuela e Michela.
Arriviamo che è già notte in albergo, digitiamo il codice ed entriamo nella stanza. Io mi posiziono sopra il letto a castello lasciando agli altri i posti migliori. Ogni notte sarei dovuto scendere e risalire da quel letto a castello per andare a pisciare (la mia prostata non trattiene più bene la birra come una volta).
La prima sera incontriamo Eduard, un amico di Nusco che vive e lavora a Berlino e ci tuffiamo immediatamente in una grossa birreria vicino Alexander Platz: boccaloni di birra da un litro, bockwurst, currywurst, pretzel e Schnitel. Alloggiamo a Friedrichschein e prima di tornare all’hotel, il buon Eduard ha una macchina elettrica a noleggio e ci porta a fare un giro al limite con Kreutzberg, lungo il muro. Notiamo a un certo punto una folla di gente attorno a dei baretti di Warschauer Strasse e ci facciamo lasciare lì. Non abbiamo capito dove siamo ma iniziamo a bere Augustiner Edelstoff da dei pakistani. Riconosciamo immediatamente i fan dei CCCP dagli abiti e dalle facce: sono tutti italiani e siamo nel centro di Berlino di notte. Mentre continuiamo ad ubriacarci ci appaiono davanti, proprio davanti, quattro persone che salgono una scala. In ordine da sinistra verso destra: Annarella Giudici, Massimo Zamboni, Giovanni Lindo Ferretti, Danilo Fatur.
Urlo sorridendo e sopreso: “Ehi Lindo!”, “Ciao” mi risponde. Gli stringo la mano d’istinto e lo abbraccio. “Voglio abbracciarvi, sia te che Fatur”, “Certo”. E ci facciamo scattare una foto. Lindo ride e mi dice: “Una ragazza mi ha baciato, non me l’aspettavo” e continua a ridere. Poi viene immediatamente circondato da altri fan e da altre macchine fotografiche (alcuni hanno delle macchine fotografiche vintage degli anni ’80, pieno stile DDR, probabilmente dei cimeli). Annarella, misteriosa e affascinante si svincola immediatamente dalla folla e sparisce nel nulla, la vedo andar via fascinosa e seducente. Vado a parlare con Massimo Zamboni, persona meravigliosa dotata di una sensibilità eccezionale, gli dico: “Massimo, ce l’hai ancora quella maglietta di Irpinia Paranoica che ti diedi dieci anni fa a Zungoli?” e lui: “Quella col caciocavallo impiccato? Certo. La conservo ancora. A volte la indossa anche mia figlia”. Un altro abbraccio e un’altra foto con Massimo.
Ciò che deve accadere accade. Trovo i CCCP, la band della memoria, la band che ha esorcizzato tante volte le mie inquietudini, che ha attraversato la storia della mia adolescenza, della mia post adolescenza e del mio passato prossimo. Ora è nel presente. Nel qui e ora. Davanti a quello stesso chioschetto di currywurst dove ero rimasto tramortito e perduto 11 anni prima.
Il giorno dopo ci svegliamo di buon mattino per andare a vedere le statue di Marx ed Engels. Gianluigi si commuove, si avvicina alla statua di Marx e lo guarda dritto in faccia, tira una bestemmia. Poi continua ad osservarlo e dice: “Ma pecchè? Pecchè’ c’avit abbandunat?”.
Nostalgia del sogno socialista che ci accomuna tutti e quattro in quel momento, che accomuna probabilmente tutti quelli che sono arrivati a Berlino appositamente per vedere la band emiliana che si riunisce per la prima volta dopo 35 anni. Dalla caduta del muro.
E così camminiamo lungo tutto il muro che è rimasto in piedi, osserviamo tutti i murales, ci fermiamo a bere un caffè che diventa una birra. Poi un’altra, poi un’altra ancora. Arriviamo all’Astra Kulturhaus di Warschauer Strasse verso le 7. Dalle cinque alle sei gli altri avevano dormito, io mi ero messo a fare meditazione (da sbronzo). C’è una fila incredibile ma tutti la rispettano. I tedeschi ci stanno insegnando a rispettare la fila e mi viene da pensare: un altro mese qua e diventeremmo civili pure noi. Nell’attesa, terrorizzo la comitiva dicendo che mi sarei fatto una foto nudo con Fatur. Poi non ne ho avuto la possibilità. E ho conservato un po’ di dignità.
Dopo la maxi fila per entrare tiriamo fuori i biglietti e ci aspetta la fila per il guardaroba. Faccio giusto in tempo a prendere un vodka tonic e il concerto inizia con l’inno della Deutsche Demokratische Republik. Massimo Zamboni saluta la folla in tedesco, siamo più di mille. Iniziano le danze con “Depressione caspica”. E’ l’ultima delle tre serate di sold out all’Astra. Cantiamo e ci emozioniamo. Quando iniziano a pogare su “Tu menti” ne approfitto per buttarmi più avanti e avvicinarmi al palco. “Le insegne luminose attirano gli allocchi”. Il repertorio è quello classico. Bellissimo. Il primo pezzo mi emoziona particolarmente ma anche la bellissima “Bang Bang / Spara Jurij”, “Emilia Paranoica”, “Kebabtraume”, cover dei Daf cantata da Zamboni, “Oh battagliero!”, “Curami”, “Trafitto”, “Radio Kabul”, “Morire”…il monologo di Fatur che imita Carmelo Bene, i suoi inquietanti e surreali numeri da circo nella sua poderosa stazza, Annarella che passa dal travestimento con un burka integrale a quello da suora, poi agli abiti sadomaso, poi è crocifissa alla bandiera dell’Italia, infine tira fuori un bandierone del PCI. Non si capisce perché Andrea Scanzi deve introdurre “Emilia Paranoica”, il suo intervento dura solo un minuto perché è subissato da fischi e gli lanciano appresso i bicchieri su cauzione.
Ferretti e Annarella si baciano sul palco quando suonano la canzone dedicata proprio a lei. Si chiudono le danze con un pubblico che canta “Amandoti”. Tutti insieme. Sembriamo una grande famiglia.
Siamo entrati nella storia, il cerchio si è chiuso. Nel post serata andiamo in un locale dove si beve solo gin. La cameriera mi chiede dei CCCP e mi dice che li ha appena scoperti e che gli piacciono moltissimo. La stessa cosa era capitata col gestore dell’hotel: passava dalla mattina alla sera le canzoni dei CCCP nella hall dell’hotel e nella stanza comune dove si faceva colazione. Io la utilizzavo per fare colazione quando tornavamo verso le 3-4 di notte.
Il gestore parla anche in italiano, mi dice di avere degli amici a Gaeta. Mi presta un accendino e mi scordo di restituirglielo.
Ho dovuto prendere due giorni di permesso dal lavoro per fare questo viaggio e sta già per finire. Vorrei rimanere a Berlino per un altro mese almeno e assistere ad altre trenta serate dei CCCP. Per avere i biglietti era stata un’impresa, li avevo presi da un sito scritto completamente in tedesco e mentre me li spedivano per posta erano andati perduti. Per fortuna sono riusciti a sostituirceli con dei biglietti elettronici. Il viaggio invece lo ha organizzato Emanuela, il nostro Cicerone, anche se non spiaccica nemmeno una parola di inglese.
Il giorno dopo dobbiamo già tornare a Bologna. Prima di prendere l’aereo, però, passiamo di nuovo per l’Astra Kulturhaus. Di giorno si vedeva meglio il paesaggio: era una specie di ghetto posto al centro tra la ferrovia e il Muro. Ubicato in una leggera depressione del terreno, colmo di rifiuti, di manifesti di gruppi rock, di graffiti, di murales, di reti metalliche, di ex capannoni industriali dismessi, sembra davvero il luogo dove si poteva osservare meglio lo smantellamento della DDR. Scatto delle foto. Un cartello reca la scritta “Suicide” e la freccia è diretta verso l’Astra Kulturhaus e verso delle pozzanghere. Ho le scarpe piene di fango ma chi se ne frega.
Siamo stati parte della storia. Ciò che non avevamo potuto vedere per motivi anagrafici, l’abbiamo potuto vivere perché ciò che deve accadere, accade.